Recensione

Franco CordelliCorriere della Sera06 August 2006

Un esoterico viaggio in Armenia

Assistendo allo spettacolo Viaggio in Armenia che il regista Giovanni Guerrieri ha tratto da un racconto di Osip Mandel’ stam, riflettevo sull’ idea di canone. Essa è entrata nel discorso comune dopo la pubblicazione del libro di Harold Bloom Il canone occidentale. E’ un’ idea intimamente contraddittoria: vuole stringere, circoscrivere; ma per quanto ingegnosi o pedanti siano gli artefici di un qualsivoglia canone, come un’ anguilla esso sguscia dalle loro mani e uno o dieci anni dopo altrove e diversamente si configura. Quando ero studente universitario, al vertice del canone della poesia contemporanea c’ erano, senza ombra di discussione, Pound e Eliot. Vi si affacciava Montale. Pochi decenni dopo, è tutto sottosopra, il canone appare rovesciato. Pound, Eliot e Montale sono la poesia modernista. In cima svettano due poeti di diversa lingua, Paul Celan e Osip Mandel’ stam; non a caso, vorrei aggiungere, tutti e due vittime del potere politico: Celan vittima di Hitler, Mandel’ stam di Stalin. Nonostante le poesie del tedesco e del russo siano più difficili di quelle dei due anglo-americani e dell’ italiano, è evidente come le nostre predilezioni di lettori siano più di prima orientate verso il nodo poesia e politica o poesia e società che non verso la poesia personale e simbolica. Una dichiarazione di Mandel’ stam è in tal senso rivelatrice: «La rivoluzione di ottobre non ha potuto fare a meno di esercitare un’ influenza sul mio lavoro, poiché mi ha tolto la biografia, la sensazione di un significato personale. Le sono grato per aver posto fine una volta per sempre alla sicurezza spirituale e al vivere di rendita culturale». Fino a che punto Mandel’ stam fosse sarcasticamente sincero è difficile capire. Ma è un fatto che i suoi interpreti, Silvio Castiglioni, Giovanni Guerrieri e il drammaturgo Andrea Nanni, nel Viaggio in Armenia vedono «l’ autoritratto di un poeta irriducibilmente ostile a tutto ciò che è personale». Un altro fatto è che Stalin, come di tutti, sospettava perfino di Mandel’ stam, il quale, a quarantadue anni, quando nel 1933 fu spedito in Armenia allo scopo di dimostrare la propria affidabilità, agli occhi di Anna Achmatova apparve «molto cambiato: si era appesantito, aveva i capelli grigi, cominciava a respirare male; dava l’ impressione di un vecchio». Inutile dire che Mandel’ stam non si riscattò affatto. Non scrisse un testo che mostrasse i progressi di quella regione, da Mosca lontana. Scrisse, piuttosto, il resoconto di un viaggio iniziatico: in otto stazioni, ciò che gli accadde (di pensare e captare e dentro di sé modificare) di fronte all’ alieno: «Non vi è nulla di più istruttivo e gioioso che immergersi nella compagnia di persone di una razza completamente diversa, con le quali simpatizzi, delle quali vai orgoglioso anche se sei un estraneo». Questo carattere di simpatia Castiglioni lo coglie ricevendo noi spettatori travestito da armeno, con ricca capigliatura e sonori baffoni. Ci conduce in un corridoio arredato da teche e nelle vaste stanze del Castello Pasquini. Ben presto però (è la scena più bella) si strucca, di fronte a uno specchio, e ritrova se stesso in quanto Osip. Gli cambia anche la voce, da cavernosa e cerimoniosa essa si fa lirica, intima, sofferta: una voce bassa come le luci in cui procediamo. A un certo punto vi è un momento di prolungato silenzio; e qui, a questa altezza, da sontuoso e ipermetaforico (la metafora, in Mandel’ stam, che zampilla come da una fonte, non risulta programmatica, come nei simbolisti, né una scappatoia, come nel modernismo) il discorso di Castiglioni diventa esoterico: che è, con ogni evidenza, un carattere del Viaggio in Armenia, mai però di se stesso compiaciuto come, a volte, nello spettacolo che ne è stato tratto.