Recensione

Walter PorceddaLa Nuova Sardegna23 November 2005

Teatro, risotto e Cannonau

La sala teatrale trasformata in un'accogliente cantina

CAGLIARI. Teatro e cucina. Del buon teatro e della buona tavola. A proporli all’interno di un’insolita e apprezzatissima serata è l’ottimo Silvio Castiglioni, attore di prim’ordine di Santarcangelo di Romagna, patria di teatranti e di ribelli. E di buongustai pure. Capaci di apprezzare il saporito risotto cucinato al modo pilaf e condito con le parti buone del maiale, quelle destinate alla salsiccia, cucinate a parte con cipolle, vino, aglio e rosmarino. Risotto al "tastasal" così lo chiamano in Veneto, terra materna del Castiglioni, cha ha una cottura lunga, il tempo giusto dello spettacolo "Filò, viaggio di uno Zanni all’inferno", presentato giovedì e venerdì all’interno della stagione teatrale del Cada Die in uno degli spazi della rinnovata Vetreria di Pirri. Tutto accade davanti agli spettatori, assisi su panche e tavoli da osteria, e intenti a consumare salumi e formaggi innaffiati dall’ottimo cannonau di Jerzu.
A sinistra della scena, da due enormi paioli al fuoco, guardati a vista dal fratello Paolo sale il vapore. C’è un’aria familiare in questa improvvisata cantina dalle pareti appena rifatte a nuovo. Sa di antico, di ambienti di un’Italia ingiallita nel tempo. Di un paese povero eppure generoso, di una terra dura da lavorare, unica fonte di sostentamento per i suoi figli che le notti di inverno, quelle di vigilia delle feste, si ritrovavano attorno ad un focolare. E forse fu così, attorno a quelle fiamme, che nacquero le storie dei padri di quei contadini. Un insieme di tragedia e comicità, satira carnevalesca, lazzi e burle. Il buon lievito cioè, per quella grande tradizione della nostra bella e unica Commedia dell’Arte che il bravissimo Castiglioni agisce, tra le maglie larghe del racconto, talvolta con il passo dell’epicità. Accompagnato dal fisarmonicista Beppe Chirico, l’attore, pantloni bianchi, camicia rossa e gilet nero, al centro di una pedana, è un fine dicitore di storie. Parti di un grande affresco dipinto in modo non uniforme, ora a pennellate larghe e decise, ora a macchie dai colori forti, ora ancora, appena sfumate e tremule come gocce di vapore che salgono dai campi ai primi raggi di sole. E’ una storia che va dall’Italia all’Argentina, dal dopoguerra ai giorni nostri, entra nei cinemi di paese dove negli anni sessanta si proiettava "Marcellino pane e vino", racconta il rito sanguinario dell’ammazzamento del maiale e i pezzi di cervello distribuiti come ostie benedette. Storie di paese e di contrade della vasta provincia italiana, dove a tratti affiorano i versi in vernacolo di Andrea Zanzotto. Va dai terribili momenti del terremoto friulano alle radiose giornate del Sessantotto, fino alle bombe di piazza Fontana. E come se si sfogliasse un’agenda, ecco le telefonate alla mamma scandire i giorni e gli anni, le nascite e le morti della comunità. Di quella comunità contadina del quale Castiglioni è il custode. Ora è il Zanni, ora Pantalone, fino ad assumere la maschera tragica e comica di Arlecchino. Lo stesso che viene rappresentato in una conferenza dell’attore a Buenos Aires. Al termine della quale si avvicinò un signore elegante che regalò all’attore un libro con le poesie di Zanzotto tradotte in castigliano. Quel signore era Marco Ventura, incriminato a suo tempo per la stage di Piazza Fontana. Così il cerchio si chiude, la storia finisce. E il risotto può essere servito a tavola. Caldo e fumante.