Recensione

Sara ChiapporiLa Repubblica10 December 2016

Un percorso pudico tra le tele di Ghizzardi

Silvio Castiglioni è uomo di teatro schivo, quasi austero nel suo navigare lontano dagli ammiccamenti lungo rotte anomale che richiedono tempo, silenzio e respiri profondi. Con lui abbiamo scoperto Pietro Ghizzardi, pittore contadino tra le nebbie e i campi della Bassa reggiana. Meno noto dell’altro padano naif, Antonio Ligabue, Ghizzardi, nato a Viadana nel 1906, inizia a dipingere da ragazzino. Di arte non sa nulla, è semianalfabeta, ma con i colori che si fabbrica da solo impastando erba, pietre, terra e farina inventa mondi domando una realtà che altrimenti lo travolgerebbe. Donne, soprattutto, grandi seni, visi segnati, l’immensità scura degli occhi. Più che primitivo, vicino a Egon Schiele e Lucian Freud, di cui pure ignora l’esistenza. Il corpo femminile è un mistero in cui affondare attraverso il segno grafico. Come Ligabue, gira lungo il Po con i suoi quadri appesi alla bicicletta, perché tutti li possano vedere. E infatti qualcuno si accorge di lui. Cesare Zavattini, per esempio, che firmerà la prefazione della sua autobiografia, Mi richordo anchora, sorprente memoir in una lingua sgrammaticata e vividissima (appena ripubblicato da Quodlibet). Per raccontare Casa Ghizzardi, Silvio Castiglioni e il regista Giovanni Guerrieri si sono inventati un delicato dispositivo scenico in movimento per gli spazi attigui al palco del Teatro dell’Arte tra riquadri di luce da riempire con l’immaginazione generata dalle parole prima di arrivare alla sala dove invece sono esposte alcune tele di Ghizzardi (prestate dalla sua casa museo di Boretto, dove è morto nel 1986). Un po’ guida e un po’ io narrante, Castiglioni costruisce un percorso preciso, tendendo fili invisibili che catturano l’attenzione degli spettatori uno a uno. Il pittore contadino che non sapeva perché dipingeva ma non poteva farne a meno è l’enigma dell’ispirazione nascosto tra le pieghe di queste di questa performance preziosa e pudica.