Recensione

Maria Cristina VilardoCritico de Il Piccolo

L'uomo? Un animale fragile e feroce nei monologhi di Nino Pedretti

Brevi, brevissimi monologhi creati per l’ascolto silenzioso e assorto della radio. Nino Pedretti li scriveva febbrilmente nei giorni della malattia, che non gli ha lasciato il tempo di sentirli recitati. E la Rai, dopo la morte del poeta romagnolo (avvenuta a Rimini il 30 maggio 1981), non li ha mai registrati e mandati in onda. Sarebbero forse scivolati nell’oblio se l’editore riminese Raffaelli non li avesse pubblicati in due volumi, “Monologhi e Racconti” e “Grammatiche”. Il regista Silvio Castiglioni ha chiuso il cerchio, dando ai monologhi quell’esistenza per cui erano nati, ossia la voce di un attore che li fa risuonare attraverso un microfono. Sulla scena in cui li ha immersi la lunga asta del microfono guizza qua e là, per amplificare la densa e scabra intimità racchiusa nelle parole di Pedretti. Castiglioni ha portato lo spettacolo da lui ideato assieme a Georgia Galanti, “L’uomo è un animale feroce”, che lo vede regista e interprete, nel minuscolo teatro della Sala Primo Rovis della Ginnastica Triestina, per una stagione proposta quest’anno dal Petit Soleil con il CUT-Centro Universitario Teatrale.

Arriva alle spalle degli spettatori, in camice azzurro. E fa subito pensare ai tecnici del suono della Rai, che un tempo lavoravano in camice bianco. Ma questo è il camice di un uomo che prende la parola e sale sul palco di un congresso per esporre il proprio punto di vista, e in dissolvenza lascia emergere in primo piano la monotona elencazione di nomi di pesci fatta da un bambino, fuori campo, come se stesse esponendo a voce alta una sua ricerca scolastica. In dissolvenza muta pelle di continuo, questo personaggio, quando si toglie quel camice che diventa il simbolo di esistenze cristallizzate entro la scorza di frustranti routine quotidiane, entro un ribollire di pulsioni e disagi interiori che sfociano in sferzanti soliloqui, immaginati dall’autore come una galleria di personaggi diversi e strampalati. La forza scenica di Silvio Castiglioni è vibrante e carismatica quando basta per galvanizzare continui applausi e risate. Che sia l’impiegato ossessionato dalla terrazza quale status symbol o il bibliotecario ipocondriaco infastidito dall’esistenza della gente che ruota attorno al suo universo di libri, oppure il venditore di tappeti di paglia che adombra in sé la drammaticità di una vicenda familiare personale del poeta, o ancora la moglie che confessa sogni d’amore e di vita improbabili nella prosaica normalità del suo tran tran familiare, segnato dalla protervia maschile (e qui Castiglioni è magistrale nell’insinuarsi nelle pieghe dell’animo femminile), la sua interpretazione vira di volta in volta verso le vulnerabilità e le fragilità d’animo di tutti questi caratteri che potrebbero essere, come lo stesso regista ha sottolineato, tante maschere dell’autore. E probabilmente anche nostre.

Si esce da questo spettacolo riconoscenti verso Silvio Castiglioni per averci fatto conoscere i monologhi di Nino Pedretti. E per averci dato un assaggio di quel clima interiore che Gianni Fucci ricorda quale cifra degli attimi da lui vissuti con gli amici poeti Tonino Guerra, Raffaele Baldini e appunto Nino Pedretti: “Ma di quei nostri giorni selvaggi, di quella lontana infanzia in Santarcangelo, il miserrimo borgo romito di un’agreste Romagna, resterà per sempre una cupola di emozioni, di impulsi animaleschi e sublimi, brulichio del sangue dai mille occhi dolenti, mito di povera gente abbarbicata disperatamente alla vita in uno straordinario sodalizio di miseria e allegria”.