Recensione

Renato Palazzidelteatro.it30 April 2009

Il silenzio di Dio

Bella prova d’attore di Silvio Castiglioni, che ha felicemente accostato un racconto di Silvio D’Arzo ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Efficace l’allestimento minimale, con la drammaturgia di Andrea Nanni e la regia di Giovanni Guerrieri. Profonda l’indagine esistenziale. Da cosa dipende ilsilenzio di Dio, la mancanza di un suo intervento a fugare i dubbi di chi gli si rivolge? Dall’assenza, dall’indifferenza di Dio stesso? Dal fatto che le domande sono mal poste? O sono gli uomini che le pongono a non meritare attenzione? Sta di fatto che questo interrogativo – tema cruciale di tanta cultura del novecento, basti pensare all’angoscia che attraversa le grandi opere beckettiane – incombe sulla vita degli agnostici e dei credenti, pesa sui loro valori collettivi, sui loro orientamenti scientifici, medici, etici, come si evidenzia dalle squassanti divisioni che agitano e tormentano la società di oggi.
È questo spessore per così dire spirituale – ma forse il termine è improprio, limitante – a dare soprattutto senso allo spettacolo che Silvio Castiglioni ha ideato, col sostegno drammaturgico di Andrea Nanni e la regia di Giovanni Guerrieri del gruppo toscano Sacchi di Sabbia. Dai vari testi cui poteva ricorrere per tracciare un percorso all’interno di questi problemi, ne ha scelti due che trattano la questione da punti di vista in qualche modo opposti: Casa d’altri, un radiodramma tratto dall’omonimo racconto di Silvio D’Arzo, e il monologo – già più volte allestito a teatro – del Grande Inquisitore, dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij.
Al centro di entrambi i testi ci sono due depositari dell’ortodossia religiosa: nelle nitide pagine di D’Arzo a tacere è un parroco di campagna, incapace di rispondere all’anziana donna che lo interroga sul diritto di porre fine alla propria vita. Nella possente visione dostoevskiana, a non dire nulla è invece Cristo stesso, tornato sulla terra e accusato da uno spietato ministro della sua Chiesa di intralciare l’opera e il potere che essa detiene sulle anime dei fedeli. Sia in un caso che nell’altro, però, forse il silenzio vero viene prima, e sta nella sfera dell’inconoscibile, nel mistero che è origine e causa di quel tormento e di quella ferocia.
Sono due testi sul vuoto della parola, che paradossalmente non possono che esprimersi in una rigorosa trama verbale: Castiglioni li affronta infatti coi soli strumenti della voce e della recitazione. Nel primo evoca la figura spettrale di un prete smisuratamente alto, sospeso tra due microfoni, una sorta di personaggio-installazione da cui esce alla fine in giacca per incarnare il quesito della donna, che è quello di tutti noi. Nel secondo, stravaccato in una poltroncina, trasforma la febbrile invettiva nello sfogo di un burocrate, un sinistro impiegato della fede: i gesti sono rigidi, contorti, il tono è untuoso, non privo di fosca ironia. Una bella prova d’attore, percorsa da una forte tensione intellettuale.