Recensione

Franco CordelliCorriere della sera06 December 2009

Castiglioni l'istrione occulto

Domani ti farò bruciare “Leggenda del Grande Inquisitore” dai Karamazov

Con un colpo di teatro, dalla Russia del XIX secolo alla Spagna del XVI, Dostoevskij introduce ne I fratelli Karamazov quella stupefacente parabola, o allegoria,  che è la “La leggenda del Grande Inquisitore”. Tra l’anonima folla sivigliana, appare lui, “in quella stessa forma umana in cui s’era aggirato tra gli uomini per trentatré anni, quindici secoli prima”. Ma tra la gente appare un altro personaggio, un vecchio novantenne, austero, vestito con una tonaca di crine. E’ un cardinale della Chiesa Romana ed è il Grande Inquisitore. La folla, abituata alla sottomissione, fa largo e lui viene preso prigioniero dalle guardie e condotto nei sotterranei. Qui comincia il confronto tra i due uomini, in realtà la gelida ma tumultuosa esposizione dell’Inquisitore, il quale spiegherà all’Altro perché, come recita il titolo dello spettacolo di Silvio Castiglioni, interprete, e Giovanni Guerrieri regista, Domani ti farò bruciare (s’intende su un rogo) – che è un capitolo dell’eterna polemica dell’ortodosso Dostoevskij contro la Chiesa Cattolica di Roma.

Chi è in realtà il prete-Inquisitore? Volendo essere brutali, diremmo è il Diavolo, o almeno l’uomo Diabolico. Ma il personaggio è complesso. Egli non si pone dalla parte del Male, né lo rappresenta. Il succo del suo discorso è: tu dagli uomini hai preteso troppo, hai chiesto loro d’essere liberi, il che si è rivelato e si rivelerà impossibile. Noi, che conosciamo la debolezza della natura umana, siamo più pietosi, noi custodiremo gli individui come un gregge, gli toglieremo il peso della scelta e della ragione, ripristiniamo i tre valori: il miracolo, il mistero, l’autorità.

Uno dei primi commentatori di Dostoevskij, Vasilij Rozanov, nota: “Gli alti doni della libertà, della verità, dell’impresa morale sono messi da parte come un peso superfluo per l’uomo; e si chiede una sola cosa: un po’ di felicità, un po’ di riposo per il ‘povero ribelle’”. Che differenza c’è fra l’Inquisitore e un populista di oggi? Il primo è un filosofo, un metafisico. Il secondo è un politico, non dirà mai ciò che l’Inquisitore dice, forse neppure lo penserà, si limita ad agire. E direi che è questo il ritratto disegnato da Guerrieri e in specie da Castiglioni. E’ vestito in blu, con camicia bianca e cravatta. E’ seduto, di profilo, con le gambe quasi accavallate su un bracciolo della sedia. Sulla scena non c’è che l’asettica sedia e una gigantesca ombra, ora rossa ora nera, dietro le spalle dello sprezzante oratore. Costui è d’una sgradevolezza memorabile. Ha le braccia conserte, si gira su se stesso, si rivolge a noi. Sembra, nel suo eloquio, calmo e ispirato. Ma si batte una mano sul braccio; ha scatti improvvisi, nervosi, si accende una sigaretta e ben presto gli cade di mano. Ovvero, si distende come fosse a casa sua, su un divano, si sporge dalla sedia, si irrigidisce. Raramente concitato, semmai subdolo e persuasivo, però agita le mani dietro le orecchie – per riacquistare ispirazione e concentrazione. Ma il discorso religioso come quello di Dostoevskij diviene qui laico, quasi machiavellico.

Per tutto il tempo dello spettacolo pensiamo che Castiglioni è un attore che eccelle nel togliere, nello sfoltire (la stessa abnorme concitazione di Dostoevskij), insomma nell’evitare la propria posizione di attore. Ma vediamo anche come il suo rifiuto dell’enfasi, o d’ogni eccesso di rivelazione di sé, altro non sia che un più sofisticato, cesellato istrionismo. Poiché alla fine, cosa c’è di più diabolico dell’istrionismo se non il suo occultamento?